“Ci sono tre modi che l’uomo ha per esprimere la propria profonda afflizione. Gli uomini che appartengono al primo stadio gridano, quelli che stanno a un livello un po’ più elevato tacciono; l’uomo capace di elevarsi ad un piano ulteriore sa trasformare
il proprio dolore in canto”.
Questo detto della tradizione ebraica è ritornato alla mia memoria durante queste settimane in cui l’umanità è alle prese con la pandemia del coronavirus. Seguendo con attenzione le informazioni fornite dai mezzi di comunicazione sociale, mi pare di poter racchiudere le reazioni della gente a questa tragedia nei tre modi indicati sopra.
Il primo di essi, quello del gridare, è certamente il più immediato e anche il più diffuso, trovando una varietà di espressioni. C’è gente che fa arrivare fino al cielo i propri lamenti, a volte traducendoli in invettive, a volte in preghiere. In molte persone, le reazioni emotive trovano la loro espressione attraverso il gemito, manifestazione tipica di chi ha dentro la voglia di gridare, ma l’aria viene per così dire bloccata per cui esce solo una parte del grido.
Non emettono grida o gemiti solo i contagiati e i loro familiari, ma anche coloro che cerano di spiegare quanto avvenuto, ipotizzando complotti, parlando di castighi, assumendo atteggiamenti negazionisti, perdendosi in analisi guidate da ideologie o in prese di posizione politiche contrastanti. Ciò che in queste situazioni fa gridare o gemere è la ferita al narcisismo dell’uomo che, a livello inconscio, si pensa invulnerabile e immortale. La sofferenza, infatti, in tutte le sue espressioni, interrompe il cammino intrapreso dalla persona, gettandola in un’oscurità più o meno intensa. Sono molte le persone che non sanno andare oltre questa prima pur legittima tappa, restando prigionieri di sentimenti negativi che oscurano la loro visione della vita, racchiudendoli in un atteggiamento pessimistico.
Non mancano, però, coloro che, dopo aver gridato i loro sentimenti, sono capaci di tacere, cioè di sostare in un silenzio meditativo per riflettere su quanto è accaduto, nell’attesa di risposte a interrogativi angoscianti, di luci che dissipino l’oscurità, di proposte nuove da accogliere per continuare a dire sì alla vita. Negli interventi di tanti uomini di chiesa e laici è visibile questa tendenza a voler ricavare dalla drammatica realtà della pandemia, lezioni di vita ricca di valori umani e spirituali. L’impegno per superare positivamente le vicende dolorose causate dal coronavirus può favorire l’entrata nella fase del canto, da intendersi come il riconoscimento che qualcosa di nuovo e di prezioso può avvenire. Aiuta a comprendere questa trasformazione l’arte giapponese del kintsugi, consistente nel riunire con un metallo prezioso – oro o argento liquido o lacca con polvere d’oro – i pezzi di un oggetto di ceramica rotto. La ceramica riparata si ri-presenta con una nuova veste, grazie a un intreccio casuale di linee e di solchi dorati che si rincorrono, rendendo l’oggetto unico ed irripetibile, ognuno con la propria storia da raccontare, ognuna con la propria bellezza e preziosità da condividere.
Le risorse umane e spirituali necessarie per passare dal grido al canto si trovano all’interno della persona, ma per diventare efficaci, soprattutto in circostanze come questa, hanno bisogno dell’aiuto di qualcuno che le attivi, di uno sguardo comprensivo, di una mano che accarezzi e accompagni, di una parola che incoraggi. Questi gesti di umana solidarietà, così numerosi durante questi giorni e tanto intensi da raggiungere spesso l’eroismo, parlano della bontà presente nel cuore delle persone, di quel potenziale positivo che, lasciato emergere liberamente, coopera a lenire le ferite e ad accendere la speranza. Il mio sguardo a quanto sta accadendo è quello di un osservatore partecipe. Avverto nel mio cuore il peso della sofferenza che grava su tante persone, non sono insensibile alla preoccupazione che sorge guardando al futuro, vibro pensando alla condizione degli individui più fragili a causa della povertà, non mi è estraneo il senso di impotenza che pesa su tante persone. Gli intensi perché? che si presentano nel mio spirito senza trovare un’immediata risposta mi fanno passare dal grido, al silenzio meditativo. Non mancano momenti in cui anche il canto fa sentire le sue note. Questo accade quando la mia preghiera è all’unisono con il versetto del salmo 23 “Anche se vado per una valle oscura,/non temo alcun male, /perché tu sei con me./Il tuo bastone e il tuo vincastro/mi danno sicurezza”. Con la preghiera chiedo che queste parole risuonino, come carezza amorevole, nel cuore di quanti sono feriti nel corpo e nello spirito.